Gli anziani l’hanno sentita tuonare …

… mentre i giovani ne avranno solo sentito parlare o conoscono qualche leggenda legata ad essa

di Alessandro e Antonio Goggi*

La spingarda è stata, durante la prima metà del ‘900, il principale strumento di caccia agli acquatici nei grossi fiumi e nei laghi. Per conoscere meglio questa gloria del passato però, si deve parlare prima dell’imbarcazione utilizzata per questa caccia.

Si trattava di un battello dal fondo piatto, lungo circa 7,5 m e di larghezza massima 1,15 m, con un punto di galleggiamento molto alto per poter sparire, in silenzio, tra le acque. Sul barchino, chiamato dalle mie parti űslot, salivano due persone. Dietro un pannello ben mimetizzato con erbe e radici si nascondeva il timoniere, davanti a lui, sdraiato sul fondo del barchino, stava l’addetto all’arma. I remi erano di varia lunghezza, in base alla profondità dell’acqua e alla funzione. Si poteva praticare questa caccia anche da soli. In questo caso il timoniere legava ad un apposito occhiello uno spago legato a sua volta ad un bastoncino che teneva tra i denti. Al di sotto della canna venivano messi dei blocchetti di legno che avevano la funzione di ”alzo” della spingarda.  Arrivati alla distanza prestabilita dall’alzo si sparava tirando il cordino.

Ora parliamo dell’arma vera e propria. Le spingarde si differenziano per 2 categorie: le spingarde a braccio e le spingarde fissate al natante. Le spingarde a braccio erano in calibro 8 [anche doppietta, camerato 80 mm] e 4 monocolpo [camerato 90 mm]. Le canne erano lunghe dagli 80 ai 100 cm. Nelle spingarde fisse al natante si andava dal calibro 32 mm fino al 51 mm. In un catalogo Beretta degli anni ’20 compare anche una poderosa spingarda da 75 mm del peso complessivo di 700 kg più 200 kg di appoggio con respingenti alla glicerina, adatta solo a grosse imbarcazioni per grandi laghi. Le canne variavano dai 180 cm per i calibri più piccoli fino a 4-5 m per le più grosse. Sul fiume Po, nella mia località, le spingarde andavano dal calibri 41 fino al 48 mm. Queste armi potevano essere sia a retrocarica sia ad avancarica.

I bossoli erano o metallici o di cartone. I bossoli metallici erano per i calibri più grossi dal 41 in su, perché spesso erano fatti al tornio su misura per l’arma [si ricorda che molte spingarde erano ricavati da cannoncini]. I bossoli di cartone invece erano destinati ai calibri fino al 32 mm e per le persone particolarmente facoltose.

Le munizioni, come mi ha raccontato mio nonno, grande cacciatore di spingarda della zona, si preparavano nel seguente modo. Dopo aver decapsulato il bossolo si metteva un bastoncino nel foro dell’innesco. Dopodiché si metteva la polvere nera a grani grossi. Mio nonno caricava la polvere nera da spingarda Bernardo Piloni, ma chi non aveva abbastanza soldi ripiegava sulla mina potassa prodotta dalla SIPE e venduta in sacchetti da chilo. Sulla polvere si mettevano dei feltri ricavati da un panno di feltro spesso 2 cm con una fustella. Dopo aver pressato bene la polvere si procedeva con l’innesco. Si toglieva dunque dal foro il bastoncino, si riempiva il vuoto creato con la “polvere nera tipo francese fine” della SIPE e si metteva l’innesco “doppia forza fiamma” della Fiocchi. Le dosi su un calibro 48mm erano di 110-120 gr di polvere nera. Infine si passa al piombo. Sfato immediatamente la leggenda di chiodi, pezzi di vetro e altro caricati al posto del piombo nei periodi di guerra. Quindi si è sempre caricato del piombo comune o antimoniato [non esisteva il nichelato] del numero 2 per cacciare d’autunno durante il passo dei germani, mentre nel periodo primaverile il numero 4 per il passo delle marzaiole. Si precisa che la numerazione dell’epoca era diversa da quella odierna, infatti un pallino del 2 d’allora corrisponde all’1 odierno. Il piombo caricato, sempre nel calibro 48 mm, era del peso di 500-600 gr. Poi si metteva un cartoncino, sempre ricavato con la fustella e abbastanza spesso, con una colata di paraffina o cera per serrare il tutto.

Adesso abbiamo tutto quello che occorre per andare a caccia con la nostra spingarda.

Dopo aver messo la spingarda nell’apposita sede, a un terzo della lunghezza del barchino, si aspettava l’arrivo degli uccelli nella tesa.

La tesa era fatta in particolari zone del fiume dove l’acqua creava uno specchio quasi fermo, con la ghiaia fine dove gli anatidi erano soliti riposarsi dopo il viaggio di migrazione. I primi richiami, chiamati comunemente stampi, erano fatti in cannuccia palustre per il corpo con la testa in legno, oppure in legno dolce di salice, esternamente carbonizzati per evitare che l’acqua penetrasse nel legno e lo facesse appesantire e marcire, inoltre conferiva la base nera per la colorazione.

Quando dalla baracca i cacciatori vedevano gli uccelli scendere nella tesa si partiva per la caccia.

Lentamente, senza alcuna fretta, con il cuore che palpitava per l’emozione e la paura di fare pochi capi [al tempo si cacciava per mangiare o venderli], la barca si avvicinava allo stormo. Da riva era quasi impossibile vederla tanto era bassa. Quando si era arrivati alla debita distanza, intorno ai 100 m, il timoniere dava l’ordine di prepararsi al tiro e, nel caso gli uccelli si involassero, di far fuoco. Nel frattempo, sempre molto lentamente e stando attenti a non spaventare lo stormo, si avvicinavano ancora di una ventina di metri e…

BOOOOOOOOOOOOM!

Dopo una nuvola di fumo e un eco che tuonava lungo tutto il Po, specialmente nelle mattine fredde piene di brina, si cominciava con il fucile normale a uccidere i feriti, e infine recuperare i morti. In una spingardata, mio nonno, uccise ben 34 germani reali su 36.

Questa caccia scomparve per le leggi che vennero emanate. La prima fu quella del 63 che riduceva il calibro fino al 4, così molti cercarono di convertire i loro “spingardoni” con riduttori vari, ma la lunghezza della canna era sproporzionata rispetto al calibro e i risultati erano scarsi. L’ultima legge emanata, quella della ’68, vietava anche l’utilizzo del 10, 8 e 4 ponendo fine a quest’epoca.

Giusto o sbagliato che sia questo è quello che mio nonno più volte mi raccontò, ricordando i momenti passati con gli amici nella baracca in riva al fiume a mangiare polenta fritta, qualche salamino e a giocare a carte nelle lunghe attese.

A mio nonno Pietro, maestro di caccia e vita… che il ricordo ti mantenga vivo per tutta la mia vita.


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*Antonio Goggi, collezionista privato di libri, riviste e cartoline a tema venatorio, cataloghi d’armi e munizioni, bossoli, scatole di polvere da sparo vuote, spingarde, quadri e oggettistica a tema venatorio. Vive e lavora a Isola Sant’Antonio [AL]